PAOLO BUZI
Quaerebam Animam Mundi
TUTE BLU
Il primo lustro del terzo millennio scorre, forse sfiata. Lo fa con vapori che agli occhi si stagliano in andature oblique; sono quegli strati scuri addensatisi qui, sopra di noi, cielo d'occidente, in cumuli sottratti alla pittura materica del post razionalismo industriale, saturi di opportunità volatili, che vanno disperdendosi nelle aritmie in calando degli sbuffi dalle ciminiere, di certe loro emissioni avvelenate, le quali dilatano in uno spazio raramente scalfito dalle tempeste che si consumano a terra, tra le architetture più basse. La proprietà è un furto. Ricordo questa idea sentenziale come ricorderei una nostalgia, come una scaglia di giovinezza, o come la fotografia sbiadita di un uomo che una volta era stato forte, generoso, retto, e che non c'è più da tempo, tanto che quasi non se ne avverte la mancanza, senza rievocarla. Forse s'intendeva alludere ad una felicità diffusa, ad un'umanità parallela, indifferente alla scienza non meno che agli dèi, in piena genesi prebiblica, libera di riprodursi per abbondanza di cibo, di acqua e d'amore. E allora, che cos'è un furto? A che si riferisce questa parola svuotata? Cos'era ciò che le permetteva di esistere? E soprattutto, aveva davvero un valore? Può essere che ci si riferisse, magari, alla proprietà del vivere? Sottrarre una sola identità, con tutta la sapienza dei suoi gesti ripetuti per un'intera vita, è come togliere fiato al mondo, è soltanto incepparlo, o è nulla? Furto e proprietà si legittimano vicendevolmente, si legano l'uno all'altra come in Amore e Psiche: belli e imperfetti. Giudicarne l'unione attraverso il sistema morale genera il declino di un'idea sublime. Chi ruba chi? È Amore a rapire Psiche, o è Psiche che ha già piegato Amore alla sua volontà ammaliante, infinita e complessa? Si può amare un'idea fino a commettere la follia di rubarla, nella presunzione di farne qualcosa d'ancora più grande, sebbene gli esiti del gesto siano ignoti. Frode legittima quindi, come sarebbe legittimo pensare che il più grave reato di simonia fu concepito e commesso da Giuseppe d'Arimatea; l'esito è noto, tanto ampio da ridurre in piccolo ogni giudizio retroattivo, anche se a questo punto un dubbio ininfluente permane. Più che un furto, o prima di essere tale, la proprietà è un luogo geografico, un complesso contenitore di riferimenti sicuri, di energie affettive ed emozionali che scorrono lungo intrecci di sottilissimi fili a collegare nomi ed eventi secondo l'ordine cronologico di un calendario intimo, benché mai del tutto privato, dove ogni giorno ha il suo volto. Geografia e storia; altri due simbionti imperfetti evolvono nella mutevolezza dei confini e degli accadimenti che li determinano, sicché la proprietà e il furto si vincolano ulteriormente, come due amanti perdutamente attratti dalle reciproche forme di conquista. Codeste forme concorrono nell'apportare varianti che regolano, per differenziazioni talora crudeli, il destino di un intero popolo e la dignità dei singoli. Di conseguenza, la proprietà è la proiezione ridotta di una patria, perché una nazione è grande quanto è grande il cuore di chi abita la più piccola casa, se può permettersi di dire che quella casa è sua. Dentro una casa patria, dunque, dove per analogia, quasi per la geometria proiettiva dell'anima, che da interiore dilaga in esteriore, un dramma familiare ha la stessa intensità di un dramma sociale. La proprietà più violata è il lavoro, ovvero ciò che sfamando i figli nutre al contempo la dignità e l'orgoglio del suo artefice. Sono degni d'essere chiamati Madre e Padre della Patria ogni singola donna e ogni singolo uomo che nel silenzio modesto dei loro ruoli apportano un supplemento di continuità al bene comune della migliore sopravvivenza. Sono, per tutti, produttori d'abbondanza e di benessere, non per la virtù dei loro pensieri, ma per i gesti che, pensando, compiono. E lo fanno nella coerenza ripetitiva dell'opera quotidiana, la cui unica dipendenza si fonde per contratto alla certezza di potere, l'indomani, svolgere con umiltà invariata la stessa azione di oggi. Purché non accada che rimangano soli, o non giungerebbero a diventare ciò per cui chiedono di non essere scordati: dei produttori di gioia. Tale stato dello spirito era la dimora prediletta dell'utopia, dove avevano sede quelle idee che poi, cedute alla ragione, davano origine alle ideologie. A queste abbiamo forse affidato troppo del nostro destino e della nostra storia, non vedendo più che il fine ultimo era ancora là, tutto intriso del suo inizio, dal quale non s'era mai discosto. La gioia, allora: una proprietà comune, che non ha vincoli di geografie, ma che può essere sottratta o persino dimenticata come può accadere d'un campo, magari ancora recintato, sì, se non fosse che è pieno di nulla, da quando qualcuno ha smesso di coltivarlo. Comune, ma fortemente vincolata ad un luogo, è la proprietà del lavoro, la cui sede è qualcosa che sorge e s'innalza, che s'espande e si rinnova, se è veramente amata. Intorno alle fabbriche, un tempo, si costruivano le case dei lavoratori. Più generazioni vi si avvicendavano, in quelle strade crescevano e spesso accadeva che i figli svolgessero la stessa opera dei padri. Vicino alle case si aprivano le botteghe, poi si ergeva una scuola e talvolta una chiesa. Come nell'antichità, quando gente venuta da ogni dove si raccoglieva nel nome di una stessa fede intorno alla prima Pieve: lì, un popolo nuovo inventava una nuova vita, formava una società di uomini e donne, fondava un villaggio e gli dava un nome. Era una regola di sopravvivenza. Anno dopo anno la villa cresceva, si fortificava, si trasformava in città. La Pieve ingrandiva le navate e diventava Duomo, un bene comune destinato a rimanere sempre al centro del suo mondo. Così ho creduto che fosse anche la fabbrica e sebbene sappia che essa può appartenere ad un solo padrone, ad una famiglia, ad un gruppo o a mille azionisti, mi piace sempre pensare che la fabbrica sia di chi ci lavora. Ora tutto questo non sembrerebbe essere più d'una pagina introduttiva, mediocre e scarna, per un testo qualunque di archeologia industriale, nel quale l'abbondanza d'immagini compensi la miseria di contenuti, come a voler significare che il silenzio è forse il più adeguato dei commenti. È stato detto, la voce è autorevole, che nell'economia globale il luogo geografico di una proprietà sia da considerarsi una variabile economica indifferente. Ecco: è stata scritta la nuova regola. Essa si oppone alla precedente, intende sostituirla, la scalza e traccia una diversa disciplina del profitto. Non so chi possegga sufficiente materia per giudicare fin d'ora le conseguenze di questa via. A mezzo secolo dalla rivoluzione industriale, davanti ad una porta sontuosa spalancata sul Novecento, tra gli economisti più insigni e lungimiranti era largamente condivisa l'idea che, ormai, l'interdipendenza economica internazionale fosse giunta al punto di escludere del tutto e per sempre l'eventualità di guerre ad elevato coinvolgimento umano; i più vissero abbastanza per vedersi smentiti una prima volta, probabilmente non una seconda. Non è un paradosso che oggi le logiche dell'economia e della guerra s'incontrino nella condivisione del metodo: come una grande società industriale può rendere maggior profitto se viene smontata e venduta pezzo per pezzo, così una grande guerra è più durevole ed efficace se si frammenta in tanti conflitti più piccoli, più circoscritti, più facili da innescare, infiammare, trasferire. In entrambi i casi le perdite di materiale umano ingrassano i plusvalori. Deduttivo che, anche per le piccole guerre, il luogo geografico sia da considerarsi una variabile economica indifferente. L'importante è che non tocchino mai il salotto buono del mondo, dove predilige esibirsi la follia del demiurgo. Intorno a questo luogo, più inviolabile che elegante, e ad una distanza che non offenda le pupille sensibili di vecchi e nuovi reggenti, stanno i contenitori vuoti. Al loro interno, talvolta, è ancora possibile trovare qualche macchina affidata alla ruggine e ai suoi alleati, come certe navi immerse al largo di Odessa. Soltanto i centri storici delle città industriali restano gli stessi: sprezzanti, tronfi d'eleganza, colti, sempre infastiditi dalle periferie, ancora convinti che l'immortalità rifletta nel monumentale la sua essenza. Per non alimentare il ventre dell'ipocrisia, elargendo illusioni con la formula suadente delle promesse sindacali, forse faremmo meglio a diffondere sin d'ora la notizia che l'epica cavalleresca del lavoro è terminata, che non c'è più nessun rapporto eroico con la macchina, con la catena di montaggio, con gli altiforni, perché quelli che un tempo domavano il fuoco di Efesto, quei titani forgiati dentro le tute blu, sono una razza in estinzione, stanno per fare il loro ingresso nella mitologia industriale, che è già letteratura. Ventenni negli anni Settanta, fummo i più ingenui e splendidi produttori di sogni. Noi sognavamo soltanto una società di eguali e la società ci vedeva diversi. Eppure non c'era alcuna contraddizione in quei sogni. Ora che abbiamo bisogno di conoscere la concretezza, ci sentiamo impreparati all'incontro. Magari attraverso un incantesimo, oppure con gli effetti speciali di Spielberg, vorremmo ristabilire equivalenza tra sviluppo e società del lavoro. Nel frattempo però, sempre meno capaci d'ermeneutica, cataloghiamo i resti delle fabbriche smantellate come fossero acropoli di una civiltà cui non abbiamo quasi concesso il tempo di esistere. P.B. (Autunno MMIII) |
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