PAOLO BUZI
Quaerebam Animam Mundi
La passeggiata a ritroso di Robert WalserEdizioni del Foglio Clandestino
L'insostenibile gravità della neve (Nota di Lettura di Francesco Scaramozzino) È un libro che ammalia, questa breve raccolta di racconti che, insieme, nella successione armonica e nella coerenza dei contenuti, si dispongono a formare un testo organico caratterizzato, nella struttura di fondo, dalla sistematicità tipica del romanzo, genere a cui pure pare volersi deliberatamente sottrarre. Si potrebbe anzi dire che la scelta dell’autore, volta ad allentare ogni vincolo logico nello sviluppo della narrazione – sciogliendo i nodi che uniscono le diverse sequenze in cui la trama, pur in filigrana, si dipana – risulta affatto coerente con le figure, centrali nel libro, della neve e del ricordo: la prima, immagine da cui prende le mosse rievocando la morte di Robert Walser avvenuta il giorno di Natale del 1956; e la seconda, il ricordo, che diventa tramite fra l’autore e lo stesso Robert Walser, di cui Buzi ripercorre appunto la famosa “passeggiata”: a ritroso, necessariamente a ritroso, in base al meccanismo con cui, per sua natura, opera la memoria umana. Ed è un libro che ammalia, questo di Buzi, perché, muovendo sapientemente i fili del racconto, ora chiama con voce suadente, a tratti appena sussurrata, ora induce all’ascolto con i toni accoglienti e soffici di una parola nitida, che appare subito rassicurante, quasi innocua. E ad un tratto, cambiando di scenario, introduce nei territori più complessi dei grandi temi della vita, della storia, della società in cui si districano e risolvono le nostre esistenze. Insomma, come un campo di neve che invita ad attraversarlo nel suo candore, e con quello stesso candore improvvisamente abbacina, avvolge, imprigiona, così il lettore si accorge che tanta levità ora lo trattiene. Che la neve costringe con più forza di quanta si immagini, che il suo grido ora ci “convoca”, per usare un termine caro a Lévinas, autore citato nel libro fra i tanti riferimenti “alti” che vi ricorrono. Solo per esemplificare, già dal racconto “Un libro”, il tratto cristallino che caratterizza la prosa di Buzi, lo stile terso mai greve che assume di buon grado i toni dell’ironia, trasformano all’improvviso “il libro migliore del mondo” – il più venduto, il più ricercato, il più letto, perfino “il più bello come oggetto d’arredo in qualsiasi libreria” – in un libro di “Alta cucina” con ricette sofisticate destinate a un pubblico elitario, che induce, per differenza, a volgere lo sguardo a chi invece resta escluso dalla grande abbuffata globale che non ha occhi per chi resta ai margini del tavolo. Ancora, nel racconto eponimo, “Tomzack”, il gigante che non ha mai parlato e che spaventa i bambini, diventa antropomorfosi di tutte le solitudini della nostra società, di “Chiunque sia osteggiato, cacciato, malvisto, umiliato”, uomo o donna, vecchio o bambino, esule o profugo in fuga da una guerra. Mentre ne “Il cielo”, “il cielo dei bambini, il cielo più azzurro di tutti”, diventa presto cielo adulto, cielo di guerra, dall’odore acre, “coperto di nuvole false, piene di polvere radioattiva e di metalli fusi”. Il tema della violenza di genere, poi, di estrema attualità, viene ripreso in quello che può essere considerato l’epicentro dell’intero percorso narrativo del libro, il punto in cui l’intensità emotiva converge e si dirama, retrospettivamente e in prospettiva, diventando registro di lettura del già detto e di quello che il libro ha ancora da dire: il racconto “Una donna”, che parla forse di una donna qualunque, la prima persona che Walser incontra sulle scale all’inizio della sua passeggiata, una donna straniera “che ostentava non so quale pallida e appassita maestà”. Ma che nel racconto diventa prima, per assonanza, la madre della Cecilia dei Promessi Sposi, che procede verso il convoglio recando fra le braccia la figlia colpita dalla peste, e dal cui aspetto traspare la stessa “bellezza molle a un tempo maestosa”; quindi simbolo universale e insieme intimo di dignità nel dolore, toccante per il tratto umanissimo con cui la descrizione procede, sospinta dall’esperienza vera e profonda di cui l’autore riporta una intensa, personale testimonianza. Così, da questo centro che si irradia, anche nelle pagine che seguono la narrazione introduce con la stessa levità, la stessa innocente malia, i grandi temi della vita e della storia, come nel successivo “Fabbriche”, dove il problema della sostenibilità ambientale fa da controcanto anche ideologico alla denuncia di uno sviluppo industriale omologante fonte di anomia e abbruttimento urbanistico. Degrado che pare trovare, se non una forma di riscatto, almeno un’oasi elegiaca di ristoro ne “I due boschi”, dove l’afflato panico del racconto diventa tutt’uno con il pregio di una scrittura che ordina, cesella, impreziosisce, e per un attimo sembra proteggere e perdonare: l’attimo “spazio-temporale” della sosta, quello di una sospensione quasi onirica nell’antro salvifico, nel bosco fatto cattedrale di cui solo la scrittura poetica sembra capace. La compattezza del libro, infatti, la sua organicità, l’armonia complessiva che se ne ricava, si esprime anche nella corrispondenza lucida e consapevole fra forma e contenuto, scelte stilistiche e tematiche, che permette di passare dal nitore di una sintassi affabile e inclusiva all’uso di termini (“ermeneuta”, “fitomorfosi”, “ponocidio”) e dotte citazioni (da Aristotele a Lévinas a Rilke), portato di una competenza linguistica e di una preparazione culturale che, per la coerenza complessiva in cui si dispongono, riescono a raggiungere il lettore in modo naturale, discreto, mai forzatamente esibito. La passeggiata a ritroso di Robert Walser (o di Paolo Buzi) è dunque un libro che rispetta le attese insite già nel titolo, di per sé impegnativo, dimostrandosi sempre all’altezza del compito, pur ambizioso, che si propone: passeggiata mentale che ripercorre con lo strumento del ricordo la passeggiata di un “geniale girovago”, seguendone anche fisicamente le tracce attraverso i richiami testuali dall’originale che compaiono qua e là come intarsi ad orientare l’autore e indirizzare il testo. Percorso di un pensiero, quindi, e con ciò stesso “discorso” sempre aperto sui grandi temi della vita, destinato per sua natura a continuare, come emerge proprio dall’ultimo racconto, “Il sentimento del mondo”, che rimanda consapevolmente al primo, in una sorta di complicità circolare della narrazione che la inserisce in un quadro di complessiva sospensione, dove tutto finisce e allo stesso tempo inizia. Come bene rappresenta anche la bella copertina di Gabriele Quartero, dove un’alba può essere un tramonto, la forma stilizzata di un ombrello quella di un albero all’orizzonte, e l’uomo che sta per atterrare forse ha appena iniziato il suo volo. Francesco Scaramozzino Melzo, gennaio 2021 |
Libreria Ferrata, Brescia
L'editore Gilberto Gavioli
L'autore con la figlia Maria Elisa e l'editore Gilberto Gavioli
|
Un viaggio fluttuante(Postfazione di Marco Ercolani)
Tra il dicembre del 2017 e il gennaio del 2018 Paolo Buzi scrive un romanzo composto di nove racconti, che intitola La passeggiata a ritroso di Robert Walser. L’opera, come ci indica lo stesso autore, si compone di nove passaggi “originati da parole, definizioni, riflessioni, situazioni” contenuti ne La Passeggiata (1916), il libro che rese celebre lo scrittore svizzero. La passeggiata a ritroso di Robert Walser, volutamente simile per dimensione al racconto di Walser (nell’edizione della Piccola Biblioteca Adelphi è un testo di 88 pagine), può sembrare, alla prima lettura, un divertissement molto personale, a margine dell’opera dello scrittore. Ma, leggendo con maggiore attenzione, il libro risulta un organismo complesso, avvincente, stratificato e non soltanto un omaggio ironico al celebre autore. Analizzando alcuni temi cari a Walser – la neve, il libro, il cielo, il gigante, la stanza degli spiriti, una donna, le fabbriche, due boschi, il sentimento del mondo – Buzi articola una originale riflessione su scrittura, diversità e follia (non dimentichiamo che l’autore è un artista visivo ed è attento alla felicità delle immagini più che alla struttura del testo). Musicalmente, tutto il romanzo appare come un improvviso a più voci, voci che poi si raccordano felicemente in una sola voce. Nel primo capitolo, La neve, che possiamo definire apocrifo in quanto l’autore si identifica completamente con Walser, Buzi scrive: «Il mondo che vedo non ha bisogno di altre verità. Il mondo che vedo avrebbe bisogno, semmai, di altra neve. Se mi riconoscesse, se si accorgesse di me, che sto qui accanto a lui, come sempre in disparte e ora anche sospeso nel tempo, si ricorderebbe che proprio sotto la neve, scavando un po’ con il puntale del mio ombrello, scoprivo e liberavo voci. Alcune venivano dalla terra, dove erano restate a lungo prima che le smuovessi, mentre altre che stavano già intorno a me, flebili e pazienti, attendevano di essere ascoltate. Chi sente le voci non è un santo, né un saggio, né un sapiente, solo qualcuno che riconosce gli esseri che lo attorniano, quelli che lo abitano, quelli che lo posseggono, e non li respinge. Ora che sono del tutto privo di corporeità, ora che sono fatto di essenziale persistenza, posso vedere a chi appartengono le voci e mi sento meno solo di quand’ero in vita. Qui non ce n’è di follia, soltanto una pace inviolabile e il sacro, dolce sonno». In questo primo capitolo, che segue da vicino gli ultimi giorni di Walser che morrà il 25 dicembre del 1956 durante una passeggiata nella neve, il pensiero walseriano e il pensiero di Buzi si incontrano in un esercizio costante, attuale e inattuale, di familiarizzazione con l’aldilà, come se l’aspetto perturbante e unheimlich del mondo potesse anche trasformarsi in qualcosa di domestico, di rassicurante, di heimlich. Nel testo appena citato domina una certezza: le voci non vanno negate e represse, ma affettuosamente accolte, ascoltate. I successivi racconti si distaccano dall’identificazione apocrifa, e diventano omaggi trasversali alla Passeggiata. In Un libro Buzi rivisita il divertente episodio capitato a Walser in una libreria di Biel. In Tomzack si parla di un gigante emarginato, temuto per la sua sproporzionata corporatura ma compreso nelle sue emozioni. In Il cielo si dice, con tenerezza e ironia, come Walser pensasse che tutti i bimbi abbiano diritto ad avere il loro cielo. La stanza degli spiriti rievoca la camera abitata da Walser a Biel. In Una donna lo scrittore parla con la prima donna incontrata nella passeggiata walseriana. In Fabbriche accenna alla periferia di Biel dove molte case sono “graziosamente sparse qua e là per il verde”). In Due boschi osserva un bosco di abeti e un altro di ontani. In Il sentimento del mondo Buzi sa, con Walser, che perdere il mondo significherebbe non poter scrivere più. E il mondo, per Buzi-Walser, appare come una passeggiata interminabile dove il lettore è destinato a smarrirsi e a ri-trovarsi. L’ultimo racconto (Il sentimento del mondo) si chiude con una riflessione che riconduce al primo. «Lo spirito del camminatore è sempre più in là dei suoi passi, è sul crinale opposto del colle che ha di fronte e che non ha ancora raggiunto, è già tra i vicoli del prossimo, sconosciuto villaggio. Senonché, mistero di questa mia passeggiata, non andavo verso nessun villaggio, non cercavo i miei simili, non intendevo confondermi tra loro, anzi me ne allontanavo rapidamente. Ero deluso di me stesso e della mia specie, impegnata a riempire i suoi interminabili vuoti di cose corruttibili, da consumare in fretta, da sostituire in fretta, da distruggere in fretta, da ricostruire, da corrompere ancora, in un carosello di vita vana e mortale. Deluso di me, soprattutto, che camminavo, camminavo, poi mi fermavo a scrivere, poi camminavo ancora, ma senza mai compiere quell’ultimo passo che avrebbe finalmente colmato la distanza. C’era sempre qualcosa di cui scrivere o qualcos’altro da descrivere. Bastava un gesto, un rumore, una voce nell’intimo, bastavano due begli occhi e la mano tornava alla penna, la penna sul foglio. Era il sentimento del mondo che non la smetteva mai di lanciare il suo richiamo. Era una trappola suadente. Se mi mancasse il sentimento del mondo – diceva Robert Walser – non potrei più scrivere mezza lettera dell’alfabeto, né comporre alcunché in versi o in prosa». Qui si delinea la natura del libro che, pur rifuggendo da ogni classificazione in romanzo, saggio o racconto, descrive con esattezza la natura del perdersi. Non si viaggia verso una meta. Si va in mezzo al paesaggio. Ci si inoltra fra le cose vive della terra e del mondo, ma senza volerne ricavare delle verità precise o necessarie. È il tema della dépense batailliana, dello spreco, del non-utile. Tutto in questo libro ci parla di una sorta di inutilità segreta e preziosa, dove tutto ciò che accade potrebbe non accadere. Chi scrive è un uomo che fa esperienza di sé, che passeggia in qualche luogo della terra, ma non va verso un dove, si perde fra i fantasmi delle cose e della letteratura. E, di conseguenza, non può che rispecchiarsi nel più sfuggente fra gli scrittori e ripercorrerne, a ritroso, le tracce delle sue scritture, le orme. Citiamo, da una lettera di Walser, questa descrizione felice e ironica dello scrittore: «Ha l’aria di un uomo distratto, molto garbato, straordinariamente dotato, verso il quale la fortuna e il successo, in qualche modo, hanno gettato tutte le gioie della terra non come noci in piena testa ma direttamente nel suo grembo». Tutto è racchiuso in questo gesto: il dono gioioso della scrittura può fracassare una testa o ricadere delicatamente in braccia amorevoli. Dipende dal caso. Dipende da come inizia la passeggiata. Da come si dispongono le parole sul foglio. Perché può accadere che una futile passeggiata conduca più lontano di un viaggio suggestivo. E soprattutto mantenga l’essere umano lontano dall’età adulta della ragione. «All’infanzia che consumiamo in Terra e che dura fino al primo battito d’ali, è riservato quindi il più azzurro dei cieli. È noto invece quanto siano incerti i confini dell’adolescenza e della giovinezza. Alcuni di noi li hanno saputi trascinare oltre le soglie della vecchiaia, col grave disappunto dei savi alteri e dei burberi anziani, delle autorità religiose e di quelle laiche, ma non dei cieli che illuminano e talvolta oscurano quelle due meravigliose età. Dovremmo difenderle sempre e non lasciare che fuggano, che si sfaldino, che si sgretolino o ingialliscano come i petali di certi fiori quando sono toccati da mani adulte». Marco Ercolani |
Da "ZIBALDONI e altre meraviglie"
Sulle orme di Walser
di Alberto della Rovere in: De libris - 28/07/2023
Una recensione al libro di Paolo Buzi - La passeggiata a ritroso di Robert Walser -
edito da Edizioni del Foglio Clandestino (2020)
“… le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi (…) lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci”
(Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989)
Ispirandosi alla celebre, indimenticabile opera di Robert Walser La passeggiata (1916, in Italia edita da Adelphi), Paolo Buzi, poliedrico narratore, scenografo, poeta, grafico, ci regala un romanzo che costituisce un omaggio allo scrittore svizzero, strutturato secondo nove racconti.
Il motivo conduttore rimane quello del perdersi, per ritrovarsi spettatori con lo sguardo terso del fanciullo, generosamente estatici, tema comune a tutta la produzione di Walser, seguendo, disseminate lungo le pagine, alcune tracce che rimandano, direttamente o allegoricamente, al lavoro dello scrittore elvetico. E che, inevitabilmente, ci ricordano quell’osservare gli spazi proprio di certa produzione di Gianni Celati, da Verso la foce a Narratori delle pianure.
Exempla centrali, nel libro, paiono essere quelli della neve, immagine che rimanda alla scomparsa di Walser, il giorno di Natale del 1956 (“Il mondo che vedo non ha bisogno di altre verità. Il mondo che vedo avrebbe bisogno, semmai, di altra neve”), e del ricordo, tramite fra Buzi e Walser stesso, di cui l’autore ripercorre la passeggiata, nella prima novella, con levità, eppur con attenzione costante, come si legge nel racconto intitolato Tomzack, a “chiunque sia osteggiato, cacciato, malvisto, umiliato”, tratto proprio di tutti i protagonisti delle opere dello scrittore svizzero, come I fratelli Tanner, probabilmente il lavoro che Buzi avverte a sé più prossimo, assieme all’opera che ispira il titolo.
Ne I due boschi, accostandosi esplicitamente ad un tema fondamentale della poetica di Walser, il momento della sosta, della sospensione dal – e del – mondo, dagli accadimenti, dai giudizi, la scrittura ci appare come l’unico antro salvifico, rappresentato in consonanza con il silenzio della natura.
Una scrittura fatta di un lessico piano, dall’aggettivazione sobria, dalle molte paratattiche, rispettosa dei passi, affabili e senza pregiudizio alcuno, del camminatore, che osserva, mai emette sentenze, eppure non scevra di riferimenti altri espliciti, ad Aristotele, Lévinas e Rilke.
Come sottolinea nella postfazione Marco Ercolani, l’ultimo componimento (Il sentimento del mondo) si chiude riconducendoci al primo, apparendo, così, alla nostra lettura, una sorta di omaggio a tutti gli scrittori camminatori, da Celati a Sebald sino a Nooteboom, consapevoli che “lo spirito del camminatore è sempre più in là dei suoi passi, è sul crinale opposto del colle che ha di fronte e che non ha ancora raggiunto, è già tra i vicoli del prossimo, sconosciuto villaggio”, sempre in cerca di “quel sentimento” dal mondo, poiché vi è “sempre qualcosa di cui scrivere o qualcos’altro da descrivere. Bastava un gesto, un rumore, una voce nell’intimo, bastavano due begli occhi e la mano tornava alla penna, la penna sul foglio”.
di Alberto della Rovere in: De libris - 28/07/2023
Una recensione al libro di Paolo Buzi - La passeggiata a ritroso di Robert Walser -
edito da Edizioni del Foglio Clandestino (2020)
“… le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi (…) lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci”
(Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989)
Ispirandosi alla celebre, indimenticabile opera di Robert Walser La passeggiata (1916, in Italia edita da Adelphi), Paolo Buzi, poliedrico narratore, scenografo, poeta, grafico, ci regala un romanzo che costituisce un omaggio allo scrittore svizzero, strutturato secondo nove racconti.
Il motivo conduttore rimane quello del perdersi, per ritrovarsi spettatori con lo sguardo terso del fanciullo, generosamente estatici, tema comune a tutta la produzione di Walser, seguendo, disseminate lungo le pagine, alcune tracce che rimandano, direttamente o allegoricamente, al lavoro dello scrittore elvetico. E che, inevitabilmente, ci ricordano quell’osservare gli spazi proprio di certa produzione di Gianni Celati, da Verso la foce a Narratori delle pianure.
Exempla centrali, nel libro, paiono essere quelli della neve, immagine che rimanda alla scomparsa di Walser, il giorno di Natale del 1956 (“Il mondo che vedo non ha bisogno di altre verità. Il mondo che vedo avrebbe bisogno, semmai, di altra neve”), e del ricordo, tramite fra Buzi e Walser stesso, di cui l’autore ripercorre la passeggiata, nella prima novella, con levità, eppur con attenzione costante, come si legge nel racconto intitolato Tomzack, a “chiunque sia osteggiato, cacciato, malvisto, umiliato”, tratto proprio di tutti i protagonisti delle opere dello scrittore svizzero, come I fratelli Tanner, probabilmente il lavoro che Buzi avverte a sé più prossimo, assieme all’opera che ispira il titolo.
Ne I due boschi, accostandosi esplicitamente ad un tema fondamentale della poetica di Walser, il momento della sosta, della sospensione dal – e del – mondo, dagli accadimenti, dai giudizi, la scrittura ci appare come l’unico antro salvifico, rappresentato in consonanza con il silenzio della natura.
Una scrittura fatta di un lessico piano, dall’aggettivazione sobria, dalle molte paratattiche, rispettosa dei passi, affabili e senza pregiudizio alcuno, del camminatore, che osserva, mai emette sentenze, eppure non scevra di riferimenti altri espliciti, ad Aristotele, Lévinas e Rilke.
Come sottolinea nella postfazione Marco Ercolani, l’ultimo componimento (Il sentimento del mondo) si chiude riconducendoci al primo, apparendo, così, alla nostra lettura, una sorta di omaggio a tutti gli scrittori camminatori, da Celati a Sebald sino a Nooteboom, consapevoli che “lo spirito del camminatore è sempre più in là dei suoi passi, è sul crinale opposto del colle che ha di fronte e che non ha ancora raggiunto, è già tra i vicoli del prossimo, sconosciuto villaggio”, sempre in cerca di “quel sentimento” dal mondo, poiché vi è “sempre qualcosa di cui scrivere o qualcos’altro da descrivere. Bastava un gesto, un rumore, una voce nell’intimo, bastavano due begli occhi e la mano tornava alla penna, la penna sul foglio”.
PAOLO BUZI
Quaerebam Animam Mundi
Elogio delle Parole“Erano per l’infinito diluvio de’ mali che avevano cacciato al disotto et affogata la misera Italia, non solamente rovinate quelle che veramente fabriche chiamar si potevano, ma, quello che importava più, spento affatto tutto il numero degl’artefici: quando, come Dio volle, nacque nella città di Fiorenza, l’anno MCCXL, per dar e’ primi lumi all’arte della pittura, Giovanni cognominato Cimabue”. Apre con questa percezione la prima de “le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti” di Giorgio Vasari, pubblicate una prima volta nel 1550, aggiornate tra il ’50 e il ‘67, raccolte in due parti e ridate alla stampa appresso i Giusti nell’anno 1568 con licenza e privilegio di Pio V e di Cosimo de’ Medici, duca di Firenze e di Siena. Come Dio volle: probabile. Forse a significare lo sforzo evolutivo di un Dio che da antropofago voleva farsi filantropo, un Dio che d’un tratto, infastidito da quel trionfo di cuspidi e guglie che i costruttori di cattedrali gotiche avrebbero infilzato nel suo cielo per altri cento anni con l’arroganza propiziatoria della fede, pur di tenerlo lontano, attendeva l’avvento di un uomo che, almeno nel mondo effimero delle icone, sapesse trattarlo come un suo simile e lo ricollocasse tra gli uomini: Giovanni Cimabue, appunto. Come Dio volle: credo che Vasari ne fosse certo. Elogio delle parole: l’autore le soppesa e poi le cadenza in un adagio narrativo che accompagna i suoi lettori alla nascita del Maestro fiorentino e della pittura colta. Elogio della Parola: o del Verbo, che poi è tutti i verbi nei linguaggi del mondo, come affermerebbe, se solo potesse, Bernard Shaw. L’arte ha bisogno degli occhi e ciò che dell’arte resta impresso negli occhi raggiunge la mente e si trasforma in pensiero, il quale va in cerca di parole eufoniche per tornare indietro, per farsi nuovamente arte. Elogio, ancora, delle parole percorse dal sentimento dell’amicizia, come tra Bellori e Poussin, perché in mezzo ai gesti che concorrono a realizzare un’opera, nel colore che intesse altro colore, nel segno che si staglia, nella stesura paziente delle campiture, restano sempre impigliate innumerevoli riflessioni, molte delle quali dedicate. Vorremmo trovare nell’arte un’idea finale di bellezza che destituisca altri canoni, poi accade che la troviamo nelle parole, le quali potrebbero essere capaci di definirla perfettamente, lasciandoci il privilegio d’immaginarla. Elogio del giudizio: per Diderot, per Baudelaire, il Salon emette quei sospiri d’attesa che ricordano gli amori adolescenziali, struggenti come se fossero sempre gli ultimi, come se più di così non si potesse amare. Talvolta le parole arrivano con l’efficacia penetrante delle raffiche a ventaglio, che sono una forma perversa di passione. “Verdier dipinge con ragionevolezza, ma per me è di fondo nemico del pensiero. Müller, l’uomo dei Silfi, il grande appassionato dei soggetti poetici, dei soggetti grondanti di poesia, ha composto un quadro dal titolo Primavera. Chi non sa l’italiano crederà che questo nome voglia dire Decameron. Il colore di Faustin Besson perde molto a non essere piú alterato e riflesso dai vetri della bottega Deforge. Quanto a Fontaine, è evidente che è un uomo serio; ci ha dipinto Béranger attorniato di marmocchi dei due sessi, in atto di iniziarli ai misteri della pittura Couture. Grandi misteri, parola mia! Una luce rosa o color pesca e un’ombra verde, ecco in cosa consiste la difficoltà di tutta l’operazione. L’atroce di tale pittura è che si fa vedere: la si scorge da molto lontano. Dell’intero gruppo, il piú sfortunato è senza fallo Couture, a cui tocca in tutto questo il ruolo interessante di una vittima. Un imitatore è un indiscreto che mette in vendita una sorpresa“. Voglia di fare letteratura d’ogni cosa, da parte di Baudelaire, il cui bisogno di arte superava quello di corpi, di oppio e d’assenzio. Contro il giudizio di chiunque, Emile Zola decretava il trionfo di Manet e la sua fama fino all’estremità del tempo enumerabile. Era un elogio fatto di parole sentenziali, che non ammettevano ripensamenti. Le fortunose inopportunità di Le Roy per gli Impressionisti o di Vauxelles per i Fauves consegnavano alla storia artisti e correnti. Sempre ansiosi di nuove persecuzioni, gli efficienti nazisti andavano oltre: riuscivano, nientemeno, a superare sé stessi, aprendo ai degenerati dell’arte i cancelli di un Valhalla più glorioso del loro. Elogio di quelle parole che solcano l’ignoto, i cui profeti sono portatori innocenti di virtù accidentali. Senza rinunciare alla leggerezza miracolosa della distrazione, ho letto un numero imprecisato di pagine scritte da penne autorevoli; le loro parole talvolta sono più belle delle opere che commentano. Sicché, nel risalire il tempo fino al mio, ho pensato progressivamente all’importanza di raccontare un’opera d’arte e all’indissolubilità tra questa e il suo racconto. Non sapevo in cosa dovesse sfociare. Quello che di più certo si annunciava era un sodalizio tra parole e segni. Questi ultimi, asserviti alle prime, avrebbero composto una critica priva di giudizio ed arredato un luogo dove le parole potessero appoggiarsi, o distendersi, quindi restare sole. Una regola imprescindibile, per comporre una critica che non giudichi, per arredare una camera semiotica che sappia ospitare le parole altrui, è di non essere interpretativi. Fin dove sia possibile, ovvio: come si fa a non sentire il richiamo? Elogio delle parole sensibili: hanno la capacità d’illuminare strade nuove, quelle che il lettore occasionale, uno come me, per esempio, non avrebbe altrimenti percorso. Le parole sensibili ci soccorrono quando finiamo incastrati in un’angolazione ottusa del pensiero. Elogio, anche, delle parole dure, che nutrono intenzione e dissenso: esse c’insegnano a leggerle di traverso, a tagliare la pietra come burro. Nel secolo Novecento, e soprattutto nella seconda metà, le correnti dell’arte emergono fra le altre per mezzo delle parole che le sostengono. Ne abbisognano per sopravvivere. Non ci sono altre sponde. Non salirebbero in altro modo alla superficie. Elogio della simbiosi, perché arriva il giorno in cui un’opera d’arte non può più dirsi tale se non c’è un pezzo di letteratura che la riguardi. Nell’interdipendenza, va detto, non è sempre necessaria l’armonia. È sufficiente mantenere una consapevolezza d’indispensabilità reciproca. Se un tempo l’idea del bello era cercata tutta nella forma, adesso è da cercare in primo luogo nel significato che la forma insinua. Un rischio non facilmente calcolabile, perché tra noi c’è chi è più spirito e chi è più carne, chi segue solo la ragione e chi si affida anche ad una ragionevole vaghezza: dove ci si ferma? Con quali pesi si bilancia un giudizio? Di conseguenza: un’opera d’arte è tanto più tale, quanto più è capace di equilibrio tra massa e significato. Già, ma quanti significati ha la medesima forma? Quanti altri ne custodisce la materia necessaria per dare corpo all’opera? E poi, di che pasta è fatto il suo autore? È solo un’anima, o anche lui è legione? Possiede o no un secondo cuore? E se sì, può essere che ce lo nasconda? L’ultimo elogio è alle parole che spogliano: hanno quel loro modo di farsi ascoltare, d’incidersi nella memoria e di restarci, quasi sempre, per sempre. Ne ho trovate anche qui, ma questo è soprattutto un florilegio di parole attente. Vedono chi le legge. P.B. (Testo scritto nei dintorni di Asterope l'11 Febbraio MMXIII) |
Paul Eluard: Kodra
Remo Branca: Giorno senza sera
Joseph Beuys
J.L.Borges: L'invenzione della poesia
Antonio M. Faggiano
Marcel Duchamp: intervista con Hamilton
Vassily Kandinsky: Sguardi sul passato
Cristina Trivellin: MutaMorphosis
|
Orietta Rossi Pinelli: Hopper
|
Mark Rothko: Scritti sull'Arte
|
Paolo Buzi: ELOGIO DELLE PAROLE (2013)
PB
Quaerebam Animam Mundi
La misura del cielo
|
Prima edizione, gennaio 1997Versione ebook (Amazon Kindle)
|